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Intervista a Francesca attivista di PAL (Palestinian Animal League) www.pal.ps

Abbiamo conosciuto Francesca al MiVeg 2015. E’ la referente per l’Italia di PAL (Palestinian Animal League), un’associazione che si occupa della questione animale in un territorio martoriato da decenni come la Palestina.

1. A differenza di molti attivisti, ti stai occupando sia della questione animale che di quella umana. Perché hai scelto proprio la Palestina? Quando è nata PAL e per quale motivo?
La prima volta che sono stata in Palestina, nel 2002, ero già vegana e nella mia mente erano ben chiare le connessioni tra le forme di oppressione subite da tutte le specie viventi, compresi gli animali umani. Ho sempre avuto molte difficoltà a parlare della situazione dei palestinesi a persone che non ne sapevano molto e che comunque erano vittime, anche se inconsapevoli, della disinformazione e della retorica filoisraeliana. Non era ancora così comune la parola antispecismo in quegli anni e di sicuro molte persone che dichiaravano di essere per la liberazione animale, anche in modo radicale, non capivano i motivi per cui portare solidarietà a una popolazione sottoposta ad una occupazione militare così feroce e alla sottrazione della propria terra e di ogni libertà. Da alcuni mi sono sentita anche dire che in fondo i palestinesi non erano innocenti e che comunque si mangiavano la carne…
Quando alla International Animal Rights Conference in Lussemburgo ho sentito l’intervento di Ahmad Safi, fondatore di PAL, ho capito che era finalmente arrivata l’occasione che aspettavo da anni: poter portare avanti riflessioni ed azioni fondamentali, che danno un esempio concreto di cosa significhi davvero quello che troppo spesso rimane solo uno slogan: liberazione umana e liberazione animale.

2. Che tipo di persone fanno parte dell’associazione? Ci sono anche vegan e antispecist*? E come riuscite a sostenervi? Riuscite a conciliare gli enormi problemi della popolazione umana con quelli dei non umani? In che modo?
Chi ha dato vita a questa organizzazione proviene da un campo profughi vicino a Ramallah. Qui gli anziani portano con sé ancora le chiavi delle case da cui sono stati cacciati manu militari durante la pulizia etnica perpetrata sui palestinesi prima e dopo la nascita dello stato di Israele nel 1948. Gli attivisti di base sono persone che lavorano e studiano in università e che si occupano di organizzare incontri e workshop con bambini e adolescenti, altri sono amici che semplicemente danno una mano e che stanno iniziando a capire quanto sia importante questo lavoro. L’organizzazione ha iniziato ad introdurre con successo il concetto di veganismo. La maggior parte degli attivisti e delle attiviste sono vegetariani e molti vegani. Di recente il fratello del fondatore ha aperto una pasticceria completamente vegana proprio nel campo profughi e sta avendo molto successo.

3. Secondo te, chi vive sotto le bombe, in mezzo al terrore e alla devastazione perde l’empatia e la sensibilità nei confronti delle altre specie?
Un episodio che può far capire lo spirito di PAL è successo durante i durissimi scontri tra esercito israeliano e civili palestinesi dei mesi scorsi, dove decine e decine di palestinesi hanno perso la vita. Un attivista ha soccorso un piccione che era rimasto ferito dal lancio di oggetti e intossicato dai gas lacrimogeni. L’ha portato all’ambulanza e i paramedici palestinesi, come primo soccorso, hanno dato ossigeno a quella che poi è stata scoperta essere una femmina e ribattezzata Selma. Selma ha poi passato un periodo di riabilitazione a casa di un membro di PAL dove è stata curata da tutta la famiglia ed è guarita completamente.

Quando presentano PAL i membri del team palestinese aprono con questo motto: “Il fatto che tu sei una vittima non ti dà il diritto di rendere qualcun altro una vittima”.

Mi piace riportare le parole di due ragazze volontarie di PAL. Marwa dice: “Come vittime dell’oppressione dovremmo sapere meglio di chiunque altro quale impatto questa ha sugli altri e ciò significa che i Palestinesi, più di altri popoli, dovrebbero proteggere tutti gli individui vulnerabili, persone e animali”.

Ahlam aggiunge: Essere sotto occupazione non ti dà il diritto di far del male ad un animale. Ti dà solo il dovere di proteggere un animale. Perché vivi in questa specie di depressione ed ambiente teso che ti inducono ad essere più gentile invece che più crudele.”

Spesso la desensibilizzazione è inevitabile e ne rimangono vittima molto più facilmente i bambini. Per questo molte attività educative di PAL si incentrano sul concetto di rompere il circolo della violenza che si può riassumere con questo esempio: un padre o una madre tornano a casa dopo essere stati umiliati e picchiati dai militari e dai coloni israeliani, riversano la loro frustrazione e la loro rabbia sui rapporti coi figli e questi a loro volta se la prendono con i soggetti più deboli che principalmente sono gli animali con cui possono interagire: gatti, cani, asini, cavalli, uccelli.

4. Immaginare che la Palestina non sia solo un conflitto e riuscire a modificare questa idea stereotipata è forse l’ostacolo maggiore? Ci riuscite?

La Palestina è un luogo dove nonostante tutto sopravvivono un fascino e una magia da cui è inevitabile rimanere stregati. Quando ero lì e provavo per un attimo ad estraniarmi dalla realtà, potevo farmi rapire dalle suggestioni orientali portate dal vento, dalle calde notti e dalla brezza del Mar Mediterraneo persino in un posto da incubo come Gaza. In quei luoghi ho trascoso delle indimenticabili ore a ridere e a sentire storie rocambolesche e surreali raccontate con la tipica ironia palestinese e ho stretto amicizie molte profonde. Quel che resta della natura è davvero rigoglioso e molte specie di animali e piante ancora riescono a sopravvivere. In più una persona vegana non può restare senza cibo, non esiste l’imbarazzo di non poter accettare nulla se invitati a cena: mal che vada c’è sempre pane cotto al momento, olio e zahatar, tipico battuto di timo e sesamo. I palestinesi vogliono vivere in pace ma questa pace hanno dovuto imparare a prendersela con la forza, finendo inevitabilmente dalla parte del torto.

Per questo una differente forma di reazione sta avvenendo da ormai più di dieci anni in Palestina ed è quella dello sforzarsi di cambiare strategia e soprattutto sostituire la resistenza violenta, anche se per me comprensibile da parte di qualcuno che viene continuamente obbligato a vivere in un incubo, con manifestazioni pacifiche dove si propongono altre attività e dove si cerca di far conoscere la propria condizione di popolo oppresso senza dare pretesti al mondo esterno di dire che i palestinesi sono terroristi. Di questo forte movimento in Europa non si sente parlare e si preferisce continuare a liquidare i palestinesi come fanatici che non tollerano gli ebrei. PAL nasce un po’ dall’ondata di manifestazioni pacifiche che in molti villaggi palestinesi si svolgono ogni settimana e dove si cerca di resistere all’avanzata dell’esercito e dei coloni che occupano illegalmente le terre e costruiscono i loro insediamenti. La maggior parte dei palestinesi reagisce all’orrore della guerra occupandosi di cose belle come per esempio continuare a coltivare la terra, proteggere gli ulivi che vengono continuamente minacciati dall’esercito e dai coloni israeliani, insegnare musiche e danze tradizionali ai bambini e in generale preservare l’eredità artistica, culturale e naturale della Palestina. E così anche volgere lo sguardo verso la bellezza immutabile degli animali e del loro modo di vivere in questo mondo è una reazione.

5. Puoi raccontarci i progetti che avete realizzato? E quali sono quelli che intendete realizzare in futuro?
C’è in corso un progetto pionieristico che coinvolge un team di attivisti e studenti di veterinaria impegnati in un programma di sterilizzazione e vaccinzione dei cani randagi. La presenza di molti cani nelle campagne e intorno ai villaggi è finora stata affrontata dai funzionari dell’autorità nazionale palestinese mettendo veleno o semplicemente sparando agli animali per eliminarli. La presenza di questi cani, se non ci fosse sottrazione continua di territorio da parte di Israele con conseguente restringimenti degli spazi vitali, non è mai stata vista come troppo problematica dalle comunità palestinesi anche se in generale i cani non sono visti di buon occhio, a differenza dei gatti ai quali è permesso di fare quel che vogliono. Ho conosciuto persone che hanno adottato cani randagi, quindi c’è spazio anche per rapporti d’amicizia, ma questo progetto era necessario per evitare che i randagi continuassero a riprodursi e che contraessero malattie evitabili con la vaccinazione.

Altre attività includono i campi estivi dedicati a bambini e adolescenti dove si organizzano delle escursioni nelle colline e in ciò che resta del territorio palestinese. In questo modo bambini e ragazzi, sempre più confinati in casa o nei limiti del proprio villaggio, scoprono il contatto con la natura e imparano a conoscere le molte specie di piante e animali, molti dei quali endemici, che sorprendentemente ancora riescono a sopravvivere qui.

C’è una equipe di studenti di veterinaria e di volontari di PAL che hanno creato una clinica mobile per portare soccorso agli animali bisognosi e per insegnare norme di benessere a chi li detiene per utilizzarli nel lavoro nei campi. Inoltre, il progetto “Young journalists for animal rights” vuole stimolare i giovani a raccontare storie e a realizzare documentari o inchieste per parlare della situazione degli animali in Palestina e delle possibili soluzioni da attuare.

6. Quale è la zona della Palestina dove la situazione degli animali è maggiormente critica? Quali sono gli animali più svantaggiati? E cosa si può fare per aiutarvi?
Sicuramente la Striscia di Gaza è la zona più critica in quanto è sotto embargo economico da dieci anni ed è stata pesantemente bombardata in tre guerre scatenate da Israele nel giro di soli cinque anni.
Non essendoci continuità territoriale tra la Striscia e la Cisgiordania ed essendo in ogni caso interdetto l’accesso a chi viene da fuori, per il team di PAL è difficile intervenire direttamente in questa zona ma nell’estate del 2014 si è riusciti in qualche modo a mobilitare delle organizzazioni animaliste nella tremenda vicenda dello zoo dove molti animali sono rimasti uccisi, gravemente feriti e denutriti durante gli attacchi dell’esercito israeliano. In primo luogo questo zoo non deve esistere e anche su questo fronte PAL sta cercando di creare la giusta consapevolezza. Essendo una zona costiera, il territorio di Gaza era ricco di oasi naturali dove molte specie di uccelli, soprattutto migratori, trovavano riposo e nutrimento. Ora la situazione ecologica è disastrosa, tra rifiuti bellici e rifiuti civili che, per mancanza di idonee strutture, sommergono il già esiguo fazzoletto di terra. Direi che in genere gli animali più svantaggiati sono asini e cavalli, considerati dei meri mezzi di locomozione da molti palestinesi e in più in quanto animali palestinesi soggetti a bombardamenti e attacchi di altro tipo.

7. Voi non state aspettando che l’occupazione finisca per poi occuparvi della questione animale, ve ne state occupando ora. Qual è la reazione che riscontrate rispetto a questo vostro atteggiamento?

Riporto le parole di un volontario: “Non possiamo aspettare che l’occupazione abbia fine per costruire la società che vogliamo per noi stessi e per le future generazioni”.

Quando Ahmad, fondatore di PAL, si recò per l’ennesima volta in qualche ufficio del Ministero degli Affari Interni per registrare ufficialmente l’organizzazione fu per l’ennesima volta accolto con scherno e superiorità dal burocrate di turno, che contestava gli intenti degli attivisti e cercava di liquidarli dicendo di andare ad occuparsi di altro, come se loro avessero risolto tutti i problemi delle persone che vivono sotto occupazione militare e che rischiano ogni giorno la vita. Allora Ahmad, dopo aver ascoltato questo solito discorso disfattista, chiese al funzionario: La Palestina è solo il popolo o è più di questo?” Poi, vedendo che l’interlocutore non proferiva parola, continuò: Se la Palestina è solo il popolo, allora noi potremmo essere palestinesi ovunque. Potremmo scappare dall’occupazione, potremmo trasferirci in un altro paese e la nostra identità palestinese rimarrebbe intatta. Se la Palestina è solo il popolo allora perché così tanti palestinesi sono morti, sono stati feriti o imprigionati come parte della resistenza contro l’occupazione? Per queste persone la Palestina è più che solo il popolo. Perciò la Palestina non può essere solo la gente, deve essere di più. Deve essere la terra, gli alberi, l’aria, l’ambiente, gli animali e gli uccelli. Tutte queste cose sono elementi che formano la Palestina.
La Palestina è incompleta senza tutte queste componenti e quindi il lavoro da fare per proteggere
ognuna di queste è contribuire a proteggere il tutto”.

8. Puoi raccontarci un episodio significativo avvenuto durante il tuo attivismo in Palestina?
Un giorno andai alla sede della Palestinian Wildlife Society in un quartiere cristiano di Betlemme. Di fronte, su ogni centimetro possibile di una collina, prima ricoperta di vegetazione, si spalmava una colonia israeliana con le sue case di cemento armato tutte in serie e senza nemmeno un albero.
Il direttore della società mi fece vedere molte foto naturalistiche manifestando tutto il suo entusiasmo per la bellezza di animali e piante. Da pochi mesi era terminata l’operazione Piombo fuso, compiuta da aviazione ed esercito israeliani sui civili di Gaza usando anche uranio impoverito e fosforo bianco.
La Palestinian Wildlife Society organizzò una squadra di veterinari che andò a Gaza per curare gli animali rimasti feriti e il direttore mi fece vedere soddisfatto la foto di una bambina dicendomi: “Vedi, lei è felice perché ora la sua capretta sta meglio”.
Palestinian Animal League non era ancora nata e questo è solo un episodio dove ho notato sentimenti di empatia nei confronti degli animali.

9. Anche in Israele esistono diverse realtà, gruppi, associazioni che si occupano di antispecismo e Liberazione Animale. Riuscite ad avere dei collegamenti con loro? Pensi che potrebbero rivelarrsi utili e costruttive delle concrete forme di collaborazione?
Io, personalmente, ho conosciuto molti attivisti israeliani anarchici, che portano solidarietà ai villaggi palestinesi che si trovano ad affrontare ogni tipo di invasione e confisca di qualunque cosa gli sia ancora rimasta. Mi sono trovata molto bene con gli anarchici israeliani perché hanno una visione più completa rispetto all’attivismo che ho sperimentato in Italia e il veganismo o il vegetarismo sono rispettati se non seguiti da quasi tutti. Ma questa componente anticonformista e solidale verso i palestinesi è una parte irrisoria della società israeliana, dove impera un odio e un disprezzo verso gli arabi inculcati sin dalla nascita. Pochi illuminati riescono a liberarsene, tra cui quelli che decidono di andare a vedere coi propri occhi cosa succede davvero nei territori occupati.
Ci sono associazioni israeliane che si battono per i diritti umani e sostengono i palestinesi, ma nell’ambito animalista classico è già più difficile trovare chi non veda nei palestinesi dei nemici e tanto meno che porti avanti delle istanze di riscatto collettivo, che riguardi tutti gli esseri viventi oppressi, non solo gli animali. In Israele la leva militare è obbligatoria per tutti, maschi e femmine e tutti sono tenuti a prestare ogni anno sino ad una certa età almeno tre mesi di servizio, nei vari ambiti dell’apparato militare. Non tutti vanno al fronte ma c’è una minima parte che si rifiuta e fa obiezione di coscienza, come per esempio gli anarchici. Come può nascere qualcosa su queste basi?
I palestinesi sono continuamente bersaglio di razzismo e discriminazioni all’interno dello stato ebraico di Israele e il rischio è anche quello di ritrovarsi a collaborare con organizzazioni dove queste pratiche non vengono rifiutate.
Capisco inoltre la scelta fatta dal team palestinese di PAL di non collaborare con associazioni israeliane sino a che l’occupazione non avrà fine perché molto spesso il rischio è quello di permettere operazione di greenwashing, ovvero di dare spazio a componenti animaliste e ambientaliste che cercano di dare una visione di Israele come unico paese dell’area mediorentale dove gli animali e l’ambiente vengono tutelati e rispettati, dimenticando tutti i danni ecologici, umanitari e non da ultimo verso gli animali provocati da uno degli apparati militari più potenti e guerrafondai al mondo.

10. Pensi che le idee antispeciste possano contribuire a risolvere il conflitto che sta accadendo in Palestina?

Quando ero in Palestina pensavo costantemente ad un modo per fare capire a tutti che l’antispecismo era la via da percorrere . Mi ritrovavo in mezzo a gruppi politici della sinistra radicale palestinese, italiana, ad anarchici, a pacifisti, a gruppi cristiani, a persone provenienti da ogni parte del mondo che semplicemente volevano dare il loro contributo e aiutare i palestinesi. Molte volte mi sono ritrovata ad essere attaccata e schernita per le mie idee che per quanto riguarda gli animali e il mondo naturale chiaramente non sono in linea con le ideologie di cui altre persone pensano la Palestina abbia bisogno. In queste istanze politiche non c’è spazio per gli animali e non so proprio come chi parla di dignità, rispetto, diritti fondamentali, uguaglianza possa escludere proprio gli animali non umani, che non sono responsabili di nessuna disuguaglianza e di nessuna ingiustizia. In un contesto di guerra e di continua disperazione come quello palestinese si dovrebbe guardare proprio agli animali come esempio di convivenza e di vita rispettosa della terra e dei suoi cicli naturali. I palestinesi e chi va in quella terra per sostenerli dovrebbero in primo luogo riconoscersi e immedesimarsi negli animali non umani e nel loro quotidiano sforzo di proteggersi dall’invasione umana e dalle tante pratiche violente che con normalità si attuano contro di loro. Io vedo un parallelismo spaventoso tra i palestinesi e gli animali selvatici perché entrambi vengono continuamente sfrattati dalle loro case e dal loro habitat senza possibilità di resistere all’avanzata di cemento ed opere sempre più devastanti e sterili.
C’è anche un parallelismo evidente tra palestinesi, soprattutto a Gaza, e animali nei macelli: in entrambi i casi bagni di sangue autorizzati e tollerati, anche se i numeri delle vittime animali sono incomparabili.
Queste sono le parole di Sameh, responsabile dei volontari e coordinatore di molti progetti fra cui Young journalists for animal rights: “Crediamo che essere sotto occupazione e affrontare innumerevoli violazioni sia motivo per sentire l’altrui dolore, specialmente di coloro che vengono oppressi. Per esempio, uno dei diritti basilari per gli esseri umani è la libertà di movimento e noi palestinesi siamo deprivati di questo diritto. A causa dei posti di blocco dell’esercito israeliano molto difficilmente riusciamo a spostarci da un posto all’altro quando cerchiamo di portare i nostri progetti ad altri studenti. Nonostante tutto quello che dobbiamo affrontare niente ci può fermare dal combattere per i nostri diritti, che sono i diritti di ogni singola creatura, senza discriminazioni, di vivere con dignità e rispetto.
Noi vogliamo difendere coloro che sono oppressi e che non possono alzare la loro voce”.